di Ivo Rossi
La sentenza, con la quale la Corte Costituzionale ha “riscritto” la legge sull’autonomia differenziata, è oggetto di due opposte letture: da una parte le forze di governo che tendono a minimizzarne gli effetti, dall’altra si sottolinea come l’intervento della Consulta, non solo incida su aspetti chiave della norma, ma soprattutto riconduca la necessaria riscrittura ai principi fondamenti della nostra Carta costituzionale.
C’è chi come il presidente Zaia, con piglio ragionieristico da competizione sportiva, riduce le 109 pagine della sentenza a uno scontro ai punti con le regioni ricorrenti: 14 a favore dei ricorrenti, 13 respinte e 25 infondate.
La realtà è come sempre più complessa di qualsiasi banalizzazione di comodo. Infatti i giudici della Corte, nel richiamare i principi di unità e indivisibilità della Repubblica, hanno ribadito il carattere cooperativo del nostro regionalismo che non può mai diventare “un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale”. “Il popolo e la nazione sono unità non frammentabili. Esiste una sola nazione così come vi è solo un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali che siano titolari una porzione di sovranità”. Un richiamo molto forte che riporta su binari costituzionali le tante suggestioni che hanno lasciato immaginare, in particolare nel nostro Veneto, l’autonomia come sinonimo dell’indipendenza.
L’eventuale differenziazione, “esigenza insopprimibile del nostro regionalismo” dovrà dunque essere improntata al “principio di sussidiarietà”, che si esprime attraverso l’eventuale attribuzione di funzioni, intese come “compiti omogenei” e non invece di materie (le 23 diventate un numero magico) in quanto “a ciascuna materia afferiscono una gran quantità di funzioni eterogenee, per alcune delle quali l’attuazione del principio di sussidiarietà potrà portare all’allocazione verso il livello più alto, mentre per altre sarà giustificabile lo spostamento ad un livello più vicino ai cittadini”. In sostanza “il principio di sussidiarietà richiede …si realizzi la soluzione più efficiente”. Ed anche qua la Corte, rispetto al modello di negoziazione fin qui avviata su fragili basi politico mercantili, afferma che “l’iniziativa della Regione e l’intesa devono essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”.
Questo puntuale richiamo appare come una censura indiretta delle richieste fin qui effettuate dalle regioni, in quanto prive di argomentazioni a supporto sia sul versante dell’efficienza auto dichiarata che della misura e quantificazione degli effetti sul sistema e sul rapporto con le altre autonomie.
Affermare, come si continua a leggere in questi giorni, che la negoziazione continua sulle 9 materie no-Lep, dopo che la Corte ha dichiarato, non solo che l’unità di riferimento sono le funzioni e non le materie, ed ha indirettamente considerato arbitraria la stessa distinzione fra materie Lep e no-Lep, in quanto potrebbero “emergere situazioni di diritti civili e sociali”, appare una plateale violazione della sentenza, tanto più se consideriamo l’aleatoria in-consistenza delle richieste.
La Corte, riflettendo sulle mutate condizioni geopolitiche e sulla rilevanza del diritto dell’Unione Europea su una molteplicità di competenze, ha affermato che la sussidiarietà, intesa “come un ascensore” che porta ad allocare le funzioni nel modo più efficiente, di fatto esclude il conferimento di ben 8 materie, fra le quali spiccano, il commercio con l’estero, le norme generali sull’istruzione, le grandi reti di trasporto e la produzione di energia.
Qualche dubbio interpretativo la sentenza lascia trasparire sulle delicatissime questioni finanziarie, perché se è ben vero che i paletti posti nella determinazione delle risorse richiamano la determinazione dei fabbisogni e dei costi standard, escludendo la previsione della legge Calderoli che invece per le materie no-Lep si rifaceva alla spesa storica, e altrettanto vero che l’affidamento alle singole intese della regolazione della dotazione necessaria, lascia aperto un problema che il previsto monitoraggio annuale di misura dello scostamento fra il valore dei fabbisogni e l’andamento dei singoli gettiti regionali, sembrava cogliere appieno.
La garanzia che sia il Parlamento a occuparsene, e non invece il governo con DPCM, è sicuramente un passo avanti importantissimo che ne riafferma la centralità e sovranità in tutta la fase del procedimento.
Insomma una sentenza che, a dispetto dei cantori del va tutto bene, reinserisce il regionalismo e la differenziazione dentro binari che sembravano essersi smarriti per strada.
Un passo avanti importante che mostra, una volta di più, la necessità di superare il regionalismo conflittuale degli ultimi anni e il necessario concorso dei territori alle politiche pubbliche nazionali all’interno di un Senato delle regioni, come avviene in tutti gli altri Paesi federali.