di Ivo Rossi
L’autonomia, annunciata, evocata e rivendicata fino a diventare una sorta di scioglilingua del discorso pubblico veneto - se si esclude l’accordo sottoscritto da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna con il governo Gentiloni -, sembra destinata a trasformarsi in una ennesima promessa, questa volta di scambio fra i partiti di destra portatori di materialissimi interessi e insediamenti territoriali eterogenei. L’autonomia continua ad assumere significati diversi a seconda di chi la pronuncia, immancabilmente citata da tutti i leader di passaggio in terra veneta, mentre a sud il dibattito sui maggiori quotidiani si infiamma, paventandone pericoli talvolta immaginari.
Il tutto cinque anni dopo quel settembre 2017 in cui il referendum, sull’onda separatista catalana, portava Zaia a rilasciare un’intervista ad un quotidiano veneto in cui affermava: “Noi come la Catalogna. Andremo fino in fondo, Mi farei anche arrestare”. Toni decisamente sopra le righe che restituiscono il senso di una iniziativa che è usata come arma identitaria che poco o nulla ha a vedere con lo spirito dell’articolo 116 della Costituzione. Toni che, bisogna riconoscere, sono cambiati passando nel tempo dalla “madre di tutte le battaglie” al più ecologico “nido di vespe”.
Autonomia differenziata, mai concretamente declinata in termini di sburocratizzazione e di necessaria semplificazione degli ordinamenti, è diventata parola dai significati poliedrici: per alcuni immaginata come variante edulcorata di separatismo e di secessione, per altri, come recita la Costituzione, attribuzione di specifiche competenze aggiuntive utili a migliorare le performance pubbliche in ambiti particolari. La parola rimane la stessa ma l’interpretazione assume significati diversi a seconda della geografia e delle sensibilità politiche. Queste molteplici interpretazioni e le modalità in cui sono state utilizzate sono state fonte di equivoci generatori di paralisi e di scontri minacciati.
La enfatizzazione della sfida andata in scena negli ultimi anni, all’insegna del “vogliamo tutte le 23 materie”, “vogliamo trattenerci i soldi delle nostre tasse”, sulle orme della proposta di referendum per l’indipendenza del Veneto votata dal Consiglio Regionale, che pochi ricordano perché non presente sulla scheda elettorale del 22 ottobre 2017 solo perché cassato dalla Corte Costituzionale, ha finito per trasformare un’iniziativa tesa al miglioramento delle performance pubbliche, come si è tentato di fare invece in Emilia-Romagna, in uno strumento che lascia intravvedere la creazione di 20 realtà regionali autonome e indipendenti. Così, la riforma costituzionale, che introducendo la possibilità di trasferire ulteriori forme e condizioni particolari, con la sottolineatura sul particolari, intese come accessorie, è diventata cosa diversa con la richiesta del tutto e subito, lasciando intendere, ed è così per molti protagonisti, l’autonomia come variante solo lessicale dell’indipendenza.
È stato questo discorso pubblico, dal sapore vagamente secessionistico, a frenare in questi anni la creazione di un largo consenso parlamentare necessario per dare al Veneto alcune competenze in più. La cosiddetta secessione dei ricchi, titolo di un pamphlet di una certa fortuna a sud, ha potuto trovare legittimazione proprio in questa radicalizzazione del racconto in chiave domestica, nonostante altri, bisogna riconoscere, siano stati i toni e i modi usati dal presidente nelle sedi romane, quella stessa Roma dipinta in casa come origine di tutti i mali. Oggi lo scambio proposto è autonomia contro presidenzialismo, una proposta dai contorni confusi che sembra lasciare intendere una verticalizzazione del potere, un cambiamento della nostra democrazia, più simile ai regimi autoritari che alle democrazie parlamentari, non a caso nulla si dice sul ruolo del Parlamento come luogo della sovranità popolare.
Che rapporto esista fra una norma costituzionale a cui dare attuazione e una norma costituzionale da introdurre per cambiare l’assetto dello Stato resta mistero della politique politicienne.
E l’autonomia non ha certo bisogno di queste messe in scena. Se autonomia è responsabilità la strada è di tornare al merito, anzi, aprire finalmente una discussione che vada oltre il titolo, esplorando ciò che veramente serve al nostro tessuto, abbandonando residui fiscali e trattenuta integrale delle tasse, che suona come secessionismo parolaio e inconcludente, che tanto dannoso è stato per la nostra terra.
Articolo pubblicato originariamente sul blog di Ivo Rossi.