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Nidi di vespe e pugni di mosche

Aggiornamento: 21 ott 2022

di Ivo Rossi


La madre di tutte le battaglie cinque anni dopo il referendum.

22 ottobre 2017 - 2022


Quando, per anni, prometti ai veneti sorti magnifiche e progressive, poi finisce che questi ti credano e se quell’orizzonte salvifico svanisce, ti presentino il conto. Se interpreti un articolo della Costituzione che attribuisce la facoltà di chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e trasformi quel “particolari” in generalizzate, non una di meno, per di più ignorando quel passaggio in cui si afferma che “possono essere attribuite” e non devono, è probabile che tu stia facendo una battaglia tutta politica contro un avversario di immaginario (lo Stato), battaglia che anziché avvicinare finisce per allontanare l’autonomia possibile.


E’ quello che è avvenuto in questi cinque anni. Riavvolgendo i fotogrammi intercorsi dalla celebrazione del referendum per l’autonomia del Veneto del 22 ottobre 2017, ritroviamo una molteplicità di annunci reiterati e perentori all’insegna del “noi abbiamo fatto i nostri compiti per casa”, “siamo pronti a firmare anche domani”, annunci a cui non è seguito alcun risultato - se si esclude il pre accordo firmato con il governo Gentiloni nel 2018 - che hanno finito per disilludere i cittadini di questa regione, gente abituata a misurarsi con la concretezza, unico metro di misura di chi fa impresa e persegue risultati certi e non chimere.


E se le colpe del mancato risultato, almeno fino a ieri, è stato facile scaricarle sugli immancabili avversari di comodo (la burocrazia che non molla e i partiti centralisti), adesso che al governo è chiamata la destra, gli alibi di ieri evaporano prima ancora che l’avventura cominci, e con essi vengono meno le antiche sicurezze e l’altezzosa sicumera.


La “madre di tutte le battaglie” è già diventata in queste settimane annuncio di “nidi di vespe” pronte ad accogliere l’alleata Meloni, quando non paventata minaccia di crisi di un governo non ancora nato.


E come la Brexit per la Gran Bretagna, costruita su mirabolanti promesse di sovranità ritrovata, che in queste settimane sta presentando il conto ai conservatori e ai cittadini che ci avevano creduto, così nella Lega, uscita drasticamente ridimensionata dal voto nella terra che governa da 27 anni, si è aperta una crepa profonda, al suo interno e con il suo stesso popolo.


La trincea delle 23 materie è diventata la nuova linea del Piave del leghismo veneto, in cui da una parte si fronteggiano i “comunisti padani”, come li ha definiti l’assessore veneto Marcato alludendo agli uomini di Salvini, e dall’altra i custodi della purezza dei miti fondativi, i patrioti della piccola patria, che nel mito delle 23 materie e della trattenuta dei 9/10 delle tasse (i nostri “schei”), ha costruito un capitale politico di successo. Fino a ieri. Quelle stesse 23 materie e quel residuo fiscale che, mentre gonfiavano il petto dei sostenitori in terra veneta, fornivano argomenti e auto assoluzioni a una parte delle classi dirigenti meridionali che contro l’autonomia differenziata, declinata in “secessione dei ricchi” che vogliono scappare con la cassa, hanno via via costruito un fronte politico trasversale in una società disorientata e impoverita come quella del sud. E in un paese con grandi linee di frattura territoriali e sociali e con un Parlamento a cui vorresti dettare le tue condizioni non c’è applicazione di norma costituzionale che tenga.


Il paradosso è che a mettere in crisi il sovranismo venetista è stato proprio il voto dato ai sovranisti nazionali, quelli che pensano all’Europa solo come bancomat, quei “cugini” d’Italia che, giocando fuori casa, hanno umiliato sul proprio campo il leghismo che si sentiva unico e incontrastato interprete di questa terra.


A cinque anni dal referendum il Veneto rischia di assistere impotente alle battaglie intestine della Lega, destinate a condannarlo all’irrilevanza, sia sulla prospettiva di una realistica autonomia possibile, fatta di ciò che serve al Veneto e alle sue imprese - poche materie attraverso cui migliorare le politiche pubbliche e sperimentare un nuovo regionalismo -, sia determinando, ancora una volta, una marginalità sui tavoli romani in cui si decidono le sorti del Paese. L’annunciata fusione delle confindustrie di Padova, Treviso, Venezia e Rovigo, destinata a diventare la seconda più importante a livello nazionale, indica la strada per uscire dallo stallo generato dall’illusoria prospettiva delle ininfluenti piccole patrie, ricordando che il Veneto ha avuto un ruolo forte quando con i Rumor, i Gui e Bisaglia non si è chiuso in se stesso, coltivando invece un’idea dell’Italia tutta. Per questo contava e era rispettato.


E l’autonomia differenziata, depurata da residui fiscali e da falsi miti come le 23 materie (basti pensare a energia e banche), potrebbe tornare nell’alveo dello spirito con cui nel 2001 venne introdotta la modifica costituzionale del Titolo V.

Il tempo dell’ambiguità è finito. Cinque anni di chiacchiere bastano e avanzano.


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