Pubblichiamo la lucida analisi del direttore dell’Unità, Andrea Romano, sulla situazione politica determinatasi dopo il voto al referendum costituzionale di domenica 4 dicembre
«Credo nell’Italia e per questo sono convinto che sia necessario cambiarla». Domenica notte, annunciando le dimissioni da Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha scelto il cambiamento come cifra fondamentale della propria testimonianza. La stessa cifra che accompagna la sua vicenda politica nella buona così come nella cattiva sorte, quella che ha segnato questa esperienza di governo ma soprattutto quella lungo la quale si svilupperà la discussione nel Partito Democratico da oggi al congresso e poi fino alle elezioni parlamentari. Uno dei tanti insegnamenti della pesante sconfitta referendaria è che il cambiamento è assolutamente reversibile, che la storia conosce anche passi indietro (il Novecento era già lì a ricordarcelo, con la sua galleria mista e tragica di progressioni e regressioni) e che il consenso elettorale può legittimamente porre fine a stagioni politiche ispirate dall’innovazione. La vera domanda è se il Pd, e con esso la parte maggioritaria della sinistra italiana, può permettersi di abbandonare la strategia del cambiamento per cercare riparo e conforto nella rassicurante identità della conservazione e della difesa dell’esistente. È già accaduto in passato, per la verità con risultati non entusiasmanti, e tanto più potrebbe accadere nel prossimo futuro dinanzi alla sconfitta di un progetto di riforma costituzionale tanto ampio e ambizioso. Si tratterebbe di una scelta persino naturale, per una parte politica che ha nel proprio Dna la nobile nostalgia di un tempo che non c’è più e nel quale erano forti e indiscutibili gli insediamenti sociali e culturali di una rappresentanza che non da oggi appare fragile e frantumata. Eppure è proprio il tempo che ci tocca vivere a rendere potenzialmente catastrofica la rassicurante scelta di una identità conservativa. Perché fuori dai confini politici del Pd non c’é né una destra liberale e di stampo europeo né un movimento civico ispirato da una illuminata rappresentazione della democrazia. Al contrario, quello che ci circonda è un campo politico (i cui confini coincidono con quelli dei tanti partiti che hanno composto il Fronte del No) che somma antieuropeismo sciovinista, regressione dei diritti civili e sociali, autocrazia di partito. Gli oltre tredici milioni di italiani che hanno votato Sì al cambiamento non possono naturalmente essere iscritti d’ufficio al Pd, ma rivolgono al Pd una richiesta precisa: quella di non abbandonare l’impegno per trasformare l’Italia in un Paese più aperto, più giusto e più innovativo. Una richiesta che non trova altri interlocutori possibili nella politica italiana di oggi e che il Pd ha il dovere di raccogliere. Perché una rapida ricognizione di cosa accade fuori dai nostri confini ci dice che le sinistre che scelgono di rifugiarsi nella difesa dell’esistente (come accade in Francia, Gran Bretagna, Spagna e Germania) finiscono rapidamente a pascolare i campi dell’irrilevanza. Ma anche e soprattutto perché il Partito Democratico di Matteo Renzi ha rappresentato e rappresenta una storia di innovazione politica che, anche nella sconfitta referendaria, ha ricevuto da una grande parte d’Italia il mandato a non abbandonare l’unica strategia in grado di portare il Paese fuori dal destino di declino e involuzione al quale sembrava condannato fino a pochi anni fa. Andrea Romano su l’Unità