Il dibattito innescato dalla presidente Maria Cristina Piovesana sulla necessità di una capitale veneta che chiuda il triangolo industriale (ma non solo industriale, direi soprattutto relazionale) con Milano e Bologna è salutare. Sono ormai passati quindici anni da quando si sono affacciate le prime proposte di connettere le città di Padova, Venezia e Treviso, di unire questi tre poli di dimensioni contenute se presi singolarmente, verso una dimensione metropolitana, con strumenti di governance, gestione delle reti materiali e immateriali e una sostanziale razionalizzazione del sistema policentrico veneto. Compie dieci anni il rapporto redatto dal gruppo del professor Stefano Micelli di Ca’ Foscari per l’Ocse che individuava ragioni e strumenti per la costruzione dell’area metropolitana veneta. Poco si è fatto, le proposte dei sindaci dell’epoca sono state ignorate dalla Regione, che probabilmente ha vissuto l’iniziativa in competizione, e dai governi nazionali. La crisi economica e la maturazione della globalizzazione stanno presentando però il conto delle mancate scelte. Il Veneto è poco attrattivo, verso l’esterno e per gli stessi veneti che, a migliaia ogni anno, lasciano la terra in cui sono nati, cresciuti e dove sono stati formati. I giovani, in particolare quelli con alti livelli di educazione preferiscono Milano, Bologna o una delle tante città europee dove far valere il proprio talento. Per questo va dato atto alla presidente Piovesana il merito di aver rimesso al centro del dibattito una questione vera rispetto al futuro del Veneto e al ruolo che saprà ritagliarsi nel contesto nazionale ed europeo nei decenni a venire. Se per individuare una capitale è urgente, come giustamente afferma il sottosegretario Pierpaolo Baretta, passare dalla discussione all’iniziativa, politica e non solo, credo sia indifferibile affrontare allo stesso tempo il tema della montagna veneta. Da decenni non solo le classi dirigenti, ma gli imprenditori e le persone che vivono e lavorano nelle valli alpine, del Veronese, del Vicentino e del Bellunese si ‘leggono’ in contrapposizione con i grandi agglomerati urbani della pianura. Le misure finora sperimentate anche sulla spinta di decine di referendum separatisti – il riconoscimento nello statuto regionale della specificità o gli interventi legislativi a favore dei territori montani – non hanno prodotto risultati significativi perché il governo della montagna è sempre stato localizzato in pianura. Lo spopolamento delle aree montane non si arresta e la contrapposizione si acuisce alimentata fra l’altro da una sensazione di rassegnazione che pervade tutte le sfere sociali, istituzionali ed economiche e si traduce in un poco produttivo lamento. L’esperienza acquisita in questi anni come presidente del Fondo Comuni Confinanti mi dice, tuttavia, che come montanari abbiamo ancora molte risorse e molte carte da giocare. Abbiamo un’identità, dei valori e delle competenze da spendere, non in antitesi alla pianura e alle città, ma in modo complementare. Dovremmo avere il coraggio, tutti insieme ed esattamente come si sta facendo nell’area metropolitana del Veneto, di aggregare le singolarità della montagna e pensare non certo a una capitale, ma ad un’area omogenea con proprie regole e strumenti di governance autonomi per dare gambe a un modello di sviluppo proprio per un territorio che vada dalla Lessinia veronese al Comelico passando per l’Altopiano di Asiago. Ripeto, non un modello di sviluppo alternativo alla pianura, ma semplicemente diverso perché diverse sono le condizioni e i contesti. La centralizzazione e l’allontanamento dalla montagna di servizi, organi di governo e decisionali si traduce in un impoverimento di risorse – economiche e umane – che consegnano le popolazioni alla rassegnazione e al rancore. Non funziona, bisogna dirselo senza infingimenti. Prova ne è la gestione diretta delle risorse delle Province autonome di Trento e Bolzano a favore dei Comuni di confine. Sindaci, amministratori, imprenditori e moltissimi attori sono stati riattivati proprio grazie al fatto che le decisioni vengono prese a livello locale, secondo le logiche più efficaci per il territorio. Solo chi non conosce i territori montani e le genti che ci vivono può pensare di gestire dall’esterno lo straordinario patrimonio fatto di paesaggio, di legno e di acqua. Vale per l’idroelettrico, vale per il bosco, ma vale anche per l’infinita sequela di vincoli apposti da Roma e da Venezia. È ovvio dunque che la gestione ambientale, le economie tipiche della montagna tra cui il turismo e la produzione delle risorse dovrebbero essere definite, programmate e decise dai montanari. Sarebbe un bene per tutto il Veneto che oggi più di dieci o venti anni fa, ha bisogno di una visione chiara e unita del proprio futuro. on. Roger De Menech Presidente Fondo Comuni Confinanti
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